
WAKALIWOOD
My story about Wakaliga, together with my text was printed out in the Swiss Magazine DoppelPunkt. Here following the Italian text.



Erano più o meno le cinque del mattino in un giorno di maggio dello scorso anno. Le donne avevano già piazzato i banchi della frutta e della verdura sul ciglio della strada. Sulla schiena i loro figli legati dentro stoffe colorate ancora sonnecchiavano in attesa di qualcosa con cui riempire la pancia. A Wakaliga, quartiere slum di Kampala, è un pullulare di persone. L’umanità sembra essersi riversata tutta per strada per fare acquisti, gestire vari tipi di commercio, preparare cibo. Richard, il mio autista, è già nel compound dove abito quando lo raggiungo per iniziare la giornata. «Good morning sir – dice mentre entro nell’auto – dobbiamo fare presto o passare per Wakaliga sarà davvero difficile – aggiunge.» Barcamenarsi in auto nel traffico della slum è complicato e pericoloso. I bambini e i venditori ambulanti sfrecciano disegnando intricate gincane tra le auto e i boda boda. Un uomo si avvicina allo sportello e mi propone di comprare orologi falsi. Richard mi chiede di alzare il finestrino e mettere la sicura alla portiera, mentre un ragazzino con un casco di banane in testa tenta di vendermene qualcuna. Ci addentriamo nel traffico sino a raggiungere un distributore di benzina. Pochi minuti di pausa e arriva il mio contatto. Magro e nerboruto, mi chiede: «sei l’italiano?» Avevo contattato Charles tramite Facebook quando ancora ero in Europa, qualche settimana prima di partire per l’Uganda. Sul noto social network, il profilo di Charles Bukenya contiene decine di fotografie che lo raffigurano mentre compie performance stupefacenti: salti, pose di Kung Fu, allenamenti estremi. Charles è un istruttore di Kung Fu. La sua palestra non ha un luogo fisso. Insieme al suo collega Mustafa insegnano ai ragazzini della slum come fare le “forme” del Kung Fu, tutte le posizioni e le varie tecniche di difesa e attacco da utilizzare durante un combattimento. I suoi corsi, faticosi e rigidi, sono molto frequentati dai bambini della slum che, quando lo incontrano per le strade di Wakaliga, lo salutano giungendo il pugno destro nel palmo della mano sinistra e inchinandosi leggermente in avanti. In realtà, a Wakaliga, ma in generale in Africa, il Kung Fu sta diventando sempre più popolare. Ogni anno decine di africani si recano al tempio cinese di Shaolin, tra le montagne boscose della provincia di Henan, per imparare le arti marziali e la cultura cinese. Nella slum il Kung Fu viene visto dai ragazzi come un’opportunità. Non per la difesa personale, bensì come una via d’uscita dalla povertà. Infatti, oltre alle arti marziali, l’industria cinematografica Africana sta avendo in questo periodo un grande risalto sulla scena continentale e internazionale. Tra i vari temi trattati dai registi del Corno d’Africa, il Kung Fu sembra essere il preferito, e per questo i bambini sono così numerosi ai corsi di Charles. Un regista tedesco, Sebastian Stein, ha da poco tempo prodotto un film bizzarro circa gli africani che combattono Hitler a suon di colpi di Kung Fu. Stein, in una intervista a Vice , racconta di aver avuto l’idea dopo aver bevuto un paio di birre in più, e pensando a Hitler, il Kung Fu e l’Africa ha cercato di unire i soggetti in una sceneggiatura che neanche lui pensava di poter far diventare un action movie. Invece, il film “African Kung-Fu Nazi”, prodotto in Ghana, con attori africani (tranne Hitler impersonato dallo stesso regista Stein) sembra essere tra i più apprezzati del Paese. A Wakaliga, o Wakaliwood, in cui il nome della slum si fonde a quello di Hollywood, il regista e CEO di Ramon Productions, Nabwana Isaac Godfrey Geoffrey, soprannominato “Il Tarantino d’Uganda”, si è specializzato in action movies conosciuti per i contenuti violenti e per il budget ridotto con cui vengono realizzati. Il personale davanti e dietro le macchine da presa, infatti, viene reperito nel quartiere e di rado è pagato. Anche le attrezzature di scena sono prodotte in loco da un personaggio davvero singolare e di grande ingegno: Dauda Bisaso, 45 anni. A Wakaliwood è il responsabile della produzione di scena e quando mi riceve nel suo workshop, subito mi mostra la sua “opera prima”: una pesantissima gun machine che l’uomo attiva con un motore di qualche elettrodomestico mentre me la punta addosso urlando come Silvester Stallone durante la scena finale di Rambo I. Anche Nabwana tratta il Kung fu come tema principe delle sue trame e Charles, insieme al suo collega Mustafa e gli altri ragazzi più bravi della loro scuola, fanno parte del cast. I titoli sono una quarantina e sono tutto un programma: Who Killed Captain Alex?, Bad Black, Ebola, Rescue Team. Tutti film venduti prevalentemente porta a porta ma anche riconosciuti e apprezzati in festival occidentali come il Belgium International Film Festival o quello di Seattle. Durante una sessione di allenamento, prima di girare una scena, al mattino presto, un nutrito gruppo di bambini si allena davanti le baracche che ospitano Ramon Productions. Lì il maestro Mustafa, duro, e intransigente, sembra godere nel vedere i suoi allievi soffrire mentre performano faticosi esercizi e pose asfissianti. L’allenamento si svolge sulla terra nuda. Quella rossa che caratterizza i luoghi di queste parti. I piedi a volte calzati nelle scarpe, altre volte, la maggior parte, nudi a sfregare sulla polvere. Non ci sono orpelli qui, niente di superfluo, nessun kimono o scarpa griffata, solo l’essenziale e la voglia, tanta voglia, di imparare. Durante una breve pausa una delle ragazze più brave del gruppo rompe le fila per dissetarsi. Colgo l’occasione per chiederle come si chiama. Monicah, ha dodici anni, sembra essere la più risoluta del gruppo. Il suo sogno «è andare in Cina. Voglio imparare per bene il Kung Fu e partecipare al provino per entrare in un cast di attori.», poi si volta, torna subito in riga. Quando Mustafa la chiama per recarsi davanti a un “sacco” improvvisato, la dodicenne gli si avventa come un kamikaze, colpendolo a calci e pugni. Antonino Condorelli
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